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Vers le contre-exode rural



L’agriculture paysanne n’est que partiellement définie par les rapports marchands car l’autoproduction et l’autoconsommation la soustraient souvent du marché. Dans les sociétés rurales d’autrefois, ce type d’agriculture représentait aussi la principale forme de relation à l’environnement, car elle était le fruit d’une adaptation économique à l’environnement pour satisfaire les besoins primaires, alimentaires et autres. Corrado Seddaiu, jeune sociologue sarde, nous propose une analyse robuste et réjouissante sur les résurgences de cette petite paysannerie aujourd’hui, et sur les perspectives de renversement de l’exode rural. Après des décennies d’abandon des territoires de l’intérieur, de nouvelles communautés s’en emparent.



Raymond Depardon
Raymond Depardon

Le comunità in passato frugali si sono disintegrate, dando origine a fenomeni di abbandono delle campagne e dell’allevamento ormai non più redditizi nel nuovo contesto sociale, e favorendo lo spopolamento dei territori, soprattutto di quelli interni e marginali. Basta pensare a tutta una serie di usanze, consuetudini e veri e propri rituali che hanno costellato lo scenario della società delle aree del Mediterraneo fino a poco tempo fa e che oggi sono quasi dimenticati; rituali solidaristici di fondamentale importanza per la tenuta della comunità, sistematicamente cancellati, relegati ai margini come inutili residualità di epoche passate dalla moderna società capitalistica, e che oggi a causa della crisi economica e delle catastrofi climatiche sempre più frequenti, stanno riemergendo e riacquistano un nuovo valore simbolico grazie ad un nuovo tempo e a nuovi attori sociali.

Oggi si torna a riflettere sulle potenzialità dell’agricoltura contadina e sono emersi forti movimenti che rivendicano un tipo di agricoltura e di relazioni in grado di resistere agli esiti distruttivi del mercato. «La terra possiede le risorse sufficienti per provvedere ai bisogni di tutti, ma non all’avidità di alcuni» diceva Ghandi.
 

Uno studio approfondito del fenomeno riguardante lo spopolamento di vaste aree dell’Isola commissionato dalla regione Sardegna ha evidenziato come lo spopolamento abbia interessato alcune aree sin dalla fine del XIX° secolo, ma è negli ultimi 60 anni che ha assunto dimensioni preoccupanti (Comuni in estinzione , 2013). L’analisi evidenzia che, nell’arco dei 60 anni compresi tra il censimento del 1951 e quello del 2011, la percentuale di comuni in calo demografico è stata di circa il 60% (228 comuni su 377) e di questi oltre 1/3 aveva registrato un decremento superiore al 40%;

Una delle cause del malessere demografico è sicuramente l’arretramento del presidio dello Stato su questi territori nella forma dei servizi ai cittadini : chiusura di sportelli postali, presidi medici, centri per anziani ; chiusura di scuole, a partire da quelle dell’infanzia sino ad arrivare a quelle superiori, che costringono le popolazioni di questi territori a spostarsi verso altri luoghi dove tali servizi sono disponibili, che oltre che distanti, non sono serviti da collegamenti pubblici, o nel migliore dei casi il servizio è presente ma copre fasce orarie che costringono ad esempio alcuni studenti a levatacce notturne per poter raggiungere per tempo il luogo di studio.
 

È però la mancanza di lavoro una delle più importanti cause che favorisce l’estinzione dei comuni, i lavori tradizionali non riescono a soddisfare i nuovi bisogni e spesso le economie di sussistenza sono state ostacolate come residualità dannose al mercato, ciò ha distrutto l’integrazione delle economie che in passato riuscivano a sostenere intere comunità attraverso una completa ma allo stesso tempo rispettosa utilizzazione di tutte le risorse; la progressiva erosione delle strutture sociali tradizionali ha avuto come conseguenza l’emigrazione verso i centri costieri e di fatto la regressione demografica.

Oggi molto spesso alcuni piccoli paesi sono semi abbandonati e poco curati nei loro luoghi d’arte, nelle chiese, nei siti archeologici nei luoghi della memoria storica delle sue comunità, nei forni per il pane, nelle antiche fonti ricoperte di erbacce e rifiuti o nelle case diroccate che purtroppo sovente nascondono piccole discariche. Il fascino romantico delle rovine così di moda oggi rivela la fine di un mondo o la sua agonia.

Oggi i nostri centri anche nell’arredamento delle case, negli stili di vita e nei modi di consumare tendono spesso ad assomigliare alla città. Oggi i paesi vivono confrontandosi fra passato e futuro.


Transition et résilience

Anche i piccoli centri, nell’età della globalizzazione e dell’interconnessione vivono una dimensione nuova rapportandosi e confrontandosi non solo con l’Italia ma soprattutto con l’Europa e il resto del mondo. La messa in discussione dell’attuale modello di organizzazione sociale e di sviluppo, la presa di coscienza di un altro mondo possibile, la crescente sensibilità verso temi ambientalisti, conseguente alla crisi sistemica, hanno sicuramente favorito il dirigersi degli sguardi nei luoghi dell’altrove.

La preservazione dell’ambiente e lo sviluppo delle comunità locali in equilibrio con esso è una delle più importanti sfide che il dibattito culturale abbia accolto, e che la società contemporanea ha fatto proprio partecipando attivamente come mai in passato, frutto questo di una nuova consapevolezza insita nel desiderio e nella ricerca di un nuovo modo di vivere possibile, di nuovi sistemi di produzione, di nuovi sistemi per la mobilità, di nuovi stili di vita.
 

Pratiche come il consumo di cibi biologici e etnici, a chilometro zero, il vegetarianismo e il veganismo, il rifiuto di assistere a spettacoli con animali, i gruppi neo pagani, il turismo ecologico, sono diventati fenomeni interessanti per l’antropologia. Un certo modo di consumare o di non consumare, l’adozione di stili di vita alternativi assumono la valenza di una vera e propria ribellione contro il sistema e contemporaneamente contribuiscono alla creazione di nuove identità.

I luoghi per sottrarsi diventano i piccoli paesi, la campagna, la montagna, le colline dove il tempo viene liberato e questo distacco dal mondo dei flussi globali è più radicale e si manifesta nelle vesti di una nuova società locale. Si registrano tentativi di abbandonare le città per cercare modelli di vita alternativi e portano, sia pure in maniera non definitiva, nelle campagne e nei piccoli centri. Spesso sono i ritornati dopo una vita nelle città ma anche persone esterne alla comunità. Sono giovani, intellettuali, scrittori, artisti che pensano l’avvenire dell’umanità sia nei piccoli centri.


Perspectives pour renverser l’exode rural

Fra le varie ipotesi di intervento possibili, le leve sulle quali si può agire per cercare di contrastare questa tendenza possono essere molteplici. Alcuni suggeriscono l’incremento strutturale dei flussi migratori in entrata attraverso politiche per la famiglia che incentivino le giovani coppie sia sul versante lavorativo che su quello dei servizi per l’infanzia.

Tali politiche devono però essere legate alla programmazione e alla valorizzazione delle risorse locali al fine di rilanciare e tutelare le aree deboli, salvaguardando i tratti di specialità che contraddistinguono i paesi. Un approccio interessante è quello della Società dei territorialisti che pone al centro dell’attenzione il territorio come bene comune nella sua identità storica, culturale, sociale, ambientale, produttiva e il paesaggio in quanto sua manifestazione sensibile. Un approccio “umanistico” attento alla cultura dei luoghi che si pone in modo critico verso l’economia che domina il nostro tempo, che ispira la condotta dei governi e delle istituzioni internazionali, economia che è diventata “una tecnologia della crescita” e che ha cessato da tempo di essere una scienza sociale.
 

L’approccio “territorialista” reinterpreta il territorio come un sistema vivente ad alta complessità che è prodotto dall’incontro fra eventi culturali e natura e che è composto da luoghi dotati di identità, storia, carattere, struttura di lungo periodo in cui la dimensione locale è un punto di vista che evidenzia peculiarità, identità, unicità di un luogo e ribadisce sia l’inscindibilità di natura e cultura sia l’inscindibilità fra territorio e storia. La conoscenza e i valori espressi dalla popolazione locale sono la base per lo sviluppo di un territorio vitale, in grado di autorigenerarsi proiettando un’identità locale che guarda al futuro di certo più importante di quella che guarda solo al passato.

Attraverso incontri periodici nei vari paesi, le associazioni, le istituzioni, gli studiosi e le persone interessate hanno modo di confrontarsi e scambiare opinioni, condividere iniziative locali e saperi, analizzare le difficoltà rilevate e provare a risolverle insieme, con il vantaggio di avere a disposizione in questo modo varie metodologie già verificate in altri paesi e poter scegliere quindi quelle più adatte per intervenire nel miglior modo possibile anche in altri territori.
 

Prendiamo l’esempio del paese di Armungia, in provincia di Cagliari. Comune di circa 500 abitanti con una densità di 8.9/km2

Siamo nel paese che ha dato i natali a Emilio Lussu, dove agisce l’associazione Casa Lussu. L’elemento fondamentale è stato il ritorno ad Armungia di Tommaso Lussu, nipote di Emilio, archeologo di formazione che ha deciso di investire sull’artigianato tradizionale e in particolare sulla tessitura. Attraverso l’aiuto della sua compagna e della nonna di quest’ultima, è riuscito a ricostruire la tradizione dei saperi antichi delle donne prima che scomparissero. Con l’aiuto di artisti e artigiani si è occupato di riscoprire i colori tradizionali preoccupandosi di tutelare la biodiversità della filiera, ridando nuova luce al telaio, lo ha ripulito dalla polvere depositata di un ipotetico museo etnografico, proiettandolo nel mondo odierno, dove accanto alle “trame” tradizionali vengono proposti lavori con colori e disegni innovativi. Casa Lussu ha dato vita ad un processo a lungo termine che nessuna istituzione può produrre.
 

Un progetto dove sono coinvolto personalmente è quello messo in atto dall’associazione culturale Realtà Virtuose che agisce nel territorio del comune di Padru nella provincia di Sassari. Attraverso il contributo di ritornati, locali e non originari della comunità, abbiamo riscoperto le antiche vie di comunicazione che collegavano i numerosi villaggi del territorio, alcuni di questi ormai abbandonati. La metodologia utilizzata è stata quella delle interviste a persone anziane dei luoghi, coadiuvate da ricerche bibliografiche.

Si è iniziato a ripercorre queste antiche vie in alcuni appuntamenti denominati “I sentieri della memoria” dove si è verificato in maniera anche inaspettata il coinvolgimento di numerosi locali, evidenziato anche attraverso l’esigenza di raccontare, di ricordare e quindi di far conoscere storie, leggende, toponomastiche dei luoghi ormai finite nell’oblio e che ora riemergono e acquistano nuovamente significato.

Il passo successivo sarà quello di creare una mappa sonora del territorio, dove ad ogni puntino sulla mappa corrisponda appunto un suono realizzato attraverso registrazioni dei luoghi più significativi dell’area (fiumi, sorgenti, valli ventose, rocce leggendarie, botteghe artigiane, boschi, stalle, campi coltivati o bradi, canti, racconti degli anziani) ai quali il visitatore possa accedere scegliendo il punto sulla carta virtuale che più lo incuriosisce per essere trasportato in una dimensione non più statico-visiva ma bensì in un viaggio di suoni dove ambiente paesaggio storia e futuro danzano insieme, ma anche dove i suoni vengono messi in rete a disposizione di tutti, in particolare di artisti che li utilizzano sovente per comporre musica, ma anche per le comunità e le istituzioni che abbiano il piacere di donare dei tappeti sonori ai loro musei.
 

Accade spesso che i soggetti attivi in questi ambiti non siano i nativi. Questo in passato ha fatto spesso storcere il naso ad alcuni duri e puri dell’autodeterminazione autoctona. Ma il fenomeno della « gentrificazione » oggi è un dato di fatto da vedere in maniera positiva.

Chi si occupa di paesi a rischio spopolamento mette al centro figure inedite di abitanti e frequentatori, non solo turisti ma anche villeggianti di lungo periodo, protagonisti di nuove imprenditorialità creative che valorizzano il luogo attraverso le diversità gastronomiche, biologico- agricole, ambientali e artigianali con produzioni a km zero con mercato globale e locale.

Nei contesti da porre in atto nei paesi, è importante una risorsa che Bourdieu chiama “capitale culturale”, che spesso viene dall’esterno e produce quel fenomeno “gentrificazione felice”. I nuovi abitanti, i villeggianti con seconda casa, i ritornati e gli esterni con risorse e progetti culturali, sono una risorsa strategica. I paesi a rischio senza entrate di capitale culturale, tendono più all’implosione che allo sviluppo, per lo più logorati da interessi corporativi e conflitti locali.
 

Un riconoscimento fondamentale a queste comunità nuove viene poi anche dalla Convenzione di Faro del 2005 dove sostanzialmente le comunità di cittadini che si mettono insieme per valorizzare aspetti del proprio patrimonio, vengono appunto riconosciute come portatrici di diritti e come soggetti culturalmente attivi.

Paesaggi, prodotti del luogo, siti archeologici, monumenti e beni immateriali possono attrarre flussi turistici, innescare processi economici e dinamicità, mettere in moto tante iniziative locali. Il cibo, le acque, il silenzio, la tranquillità, i tempi lenti sono beni comuni a condizione di non svenderli ma di promuoverli adeguatamente.

Per le nuove comunità è necessario puntare anzitutto sulla cultura come strumento di rinascita, e porre al centro delle attività i saperi pratici, la memoria storica, i musei, il teatro, l’artigianato, la valorizzazione del territorio, la biodiversità.

Adottare uno sguardo nuovo sui luoghi significa superare il pregiudizio antituristico, che permetta di rileggere il tema del turismo per sostituire il termine “turisti” con “comunità itineranti”, “cittadini temporanei”, gli eccessi di difesa conservativa del paesaggio. Significa anche superare certi atteggiamenti delle culture locali: la priorità degli interessi privati dei nativi, l’ostilità ai processi migratori, a favore di processi che favoriscano la comunità e il buen vivir.

Il tema delle “nuove comunità” è centrale, perché affianca al “ritorno” o al “restare” l’idea di “andare” ad abitare in un luogo, indipendentemente se si tratti della comunità originaria.


Localités et localisme

Non è solo con il buon cibo che si conquistano le persone. Anzi spesso purtroppo vediamo che gli agriturismi contribuiscono colpevolmente a quello che Hobsbawn e Ranger chiamano “l’invenzione della tradizione”, confezionando dei pacchetti per i turisti, offerta culturale ed enogastronomica che si basa solo sulla riscoperta ma talvolta sulla creazione ex-novo di antiche pietanze riprodotte purtroppo con materie prime non locali e di origine industriale.
Tutte operazioni che contribuiscono ad annientare non solo la qualità del gusto ma anche la validità culturale della proposta. Invece che andare alla ricerca di un passato spesso inventato, sarebbe necessario proporre itinerari del gusto ancorati alla realtà dove la differenza è data, ad esempio, dalla ricerca dell’alta qualità magari biologica degli alimenti, dalle coltivazioni chilometro zero dove i visitatori non sono solo clienti di una trattoria ma acquirenti di un più complesso prodotto culturale.
 

Gli itinerari sono per definizione una forma di fruizione e di conoscenza del territorio, rappresentano quindi uno strumento di coinvolgimento anche degli operatori che ne fanno parte; dal punto di vista organizzativo l’esistenza di itinerari turistici richiede la costituzione di una rete, di operatori che si collegano tra di loro. La vendita di itinerari rappresenta un’interessante possibilità per rivitalizzare i borghi, ma è proprio questo uno dei principali problemi degli operatori locali: la mancanza di una rete che favorisca una maggiore conoscenza dell’area e contemporaneamente renda consapevoli le popolazioni locali dell’importanza del territorio, della sua tutela e delle occasioni anche dal punto di vista dell’occupazione che questo può offrire.

«Nello stazzo non c’era bisogno dello specchio. Lo specchio vero era lo sguardo della comunità dove ciascuno riflette la propria identità» diceva Bandinu.
 

La crescita di complessità dei sistemi sociali suggerisce non tanto l’estinzione della comunità, quanto invece il passaggio dalla comunità naturale, come forma originaria di unione, e dalla comunità necessaria come forma istituzionale dominante delle società tradizionali, alla comunità possibile come oggetto di scelta consapevole e prospettiva. La comunità possibile diviene critica della comunità istituzione, tensione di superamento, consapevolezza del limite di ogni istituzionalizzazione, cammino storico mai definitivo.

Frequentemente l’idea del ritorno alla comunità è giudicata come un sogno regressivo nell’illusorio tentativo di ritrovare la sicurezza di un tempo, mentre la fine della comunità è rappresentata come la conseguenza dell’inarrestabile avanzata della Gesellshaft razionale, calcolistica, artificiale. Si tratterebbe per molti solo quindi di un rimpianto del passato, di una sua mitizzazione dove gli aspetti negativi svaniscono e gli aspetti positivi risaltano in uno splendido isolamento. In realtà il dibattito odierno ci presenta numerosi spunti che evidenziano il fatto che quelle comunità sono culturalmente incompatibili con quelle presenti, ma forse proprio per questo sarebbero in grado oggi di rappresentare una proposta futura radicalmente alternativa.
 

La comunità ha un suo ruolo profondo e non neutrale per lo sviluppo del mondo agricolo. Le società locali risultano sede sia di micro imprenditorialità che di economia informale, entrambe connesse all’autoconsumo, ai rapporti di vicinato, al volontariato. Un interessante studio sulle aree montane è quello di Gubert, che afferma l’esistenza di due immagini sulla montagna, una pessimistica e una ottimistica.

La prospettiva pessimistica considera l’area rurale montana come sottosviluppata, arretrata, marginale, a partire dalla convinzione che le rotture degli equilibri demografici tradizionali, lo sfruttamento agricolo e l’inadeguatezza delle risorse locali non trovano sbocco in attività imprenditoriali di larga scala e in industrie; occorrerebbe secondo questa prospettiva un intervento programmato per cercare di ridurre il divario tra aree esterne e aree montane, importando modelli di sviluppo dall’esterno.
 

A questa prospettiva pessimistica se ne contrappone una ottimistica che considera invece le zone rurali montane come area della natura, area di ristoro e di svago, area di riserva, si sviluppa pertanto il turismo e attraverso esso si diffondono nuove modalità di relazioni sociali, nuovi valori, una nuova cultura.

Il risultato è dunque secondo Gubert analogo per alcuni versi a quello della prospettiva pessimistica, poiché entrambe si traducono in una sorta di colonizzazione, economica e culturale delle aree montane. Gubert propone invece una prospettiva alternativa che non si basi su modelli di sviluppo originati da immagini esterne alle comunità; egli assume come criterio di riferimento la qualità della vita in opposizione al reddito, che è il valore della comunità locale contrapposto al valore della società esterna, e va a realizzare la valorizzazione delle risorse locali attraverso il potenziamento dell’autonomia interna della loro gestione, e soprattutto una valorizzazione della dimensione comunitaria, della socialità, dei rapporti primari e del vicinato, e di un forte senso di autonomia, sia locale che sociale.


Nouveaux équilibres

Per Renzo Gubert, «nella comunità contemporanea è la solidarietà a garantire il nuovo equilibrio identità/identificazione».

Le comunità hanno bisogno di sapere di se stesse per un numero svariatissimo di ragioni: per mantenere vivo il contatto con le vicende che hanno luogo al loro interno, per trasmettersi informazioni, per conservare la cultura e le tradizioni, i saperi. È necessaria una ipotesi di sviluppo che tenga conto di elementi fondamentali quali l’identità culturale, l’autosufficienza, e l’attenzione verso i bisogni umani fondamentali. Ciò che si intende contestare è l’introduzione forzata, all’interno delle comunità locali rurali, della mentalità e della cultura urbano-industriale, del suo modello di progresso, dei suoi valori dei suoi modelli di vita, irruzione che spesso avviene senza tener conto dei modelli culturali e valoriali preesistenti. Un progresso che già nei primi anni 1970 Pasolini definiva un falso progresso e in alcuni casi trattasi di regresso.
 

Per fare questo è necessario che i paesi tornino ad essere comunità vive, intrecci di relazioni interpersonali fondati sulla solidarietà, sulla collaborazione, sulla trasmissione intergenerazionale del sapere e del saper fare.

Il miglior modo di provvedere con efficienza, attenzione e creatività alla conservazione delle risorse terrene e alla creazione di condizioni di vita soddisfacenti e sostenibili è quello di operare all’interno delle realtà locali.

Localizzare l’economia deve diventare un imperativo ecologico e sociale. Si dovrebbero importare ed esportare soltanto i beni e i servizi che non possono essere prodotti localmente, adoperando le risorse del luogo.

 


Bibliographie

Dimanche 29 Octobre 2023
Corrado Seddaiu