Robba
 



Piccoli comuni : premiers et derniers remparts de la démocratie



Face aux drames géopolitiques, à la remise en cause de l’ordre international et à l’affaiblissement des démocraties, comment ne pas céder à un sentiment d’impuissance et de désespoir ? Le philosophe italien Gianni Repetto, grand ami et connaisseur de la Corse, nous exhorte à résister en puisant dans nos solidarités de proximité et dans nos communautés locales. Proviamo, dai !



Stéphane Couturier, Bastia, 2023
Stéphane Couturier, Bastia, 2023
La storia della convivenza umana è un susseguirsi di passaggi, in genere evolutivi, ma talora con regressioni graduali o addirittura drastiche e improvvise che la costringono a ripartire da stadi evolutivi del passato ormai superati. È un percorso faticoso, che necessita di accurati consolidamenti e di persone in grado di metterli in atto.
Del resto nella Storia tout court molti eventi e cambiamenti smentiscono la populistica affermazione che “uno vale uno”, perché ci sono degli individui che in determinati momenti storici sono stati gli artefici indiscussi di certi percorsi poi consolidatisi. Sarebbero avvenuti ugualmente quei cambiamenti? Probabilmente sì, ma ci avrebbero impiegato più tempo e avrebbero consumato più energie umane sottratte ad altri ambiti.

Ethique du village

Ma, come esistono gli artefici positivi dell’evoluzione storica della convivenza umana, ne esistono altrettanti e forse anche più numerosi della sua involuzione. I cosiddetti “eroi negativi”, che periodicamente le infliggono pesanti regressioni con l’affermazione e la pratica di teorie di sopraffazione reciproca in base ad assunti di origine etnica o politica imperiale che determinano profonde lacerazioni nel rapporto tra i popoli o all’interno dei popoli stessi.
Dal punto di vista filosofico potremmo dire che la storia umana si sviluppa o secondo il principio nietzchiano dell’eterno ritorno dell’uguale per il quale “l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello nella polvere” [1] o secondo la teoria dei corsi e dei ricorsi storici di Vico in cui le tre età di sviluppo della Storia (l’età degli dei, l’età degli eroi e l’età degli uomini) [2] si ripetono anch’esse, ma in un crescendo evolutivo che ne migliora progressivamente gli esiti.

Ma che esse rappresentino o meno tale sviluppo, c’è comunque alla base della Storia umana e della convivenza tra gli uomini un’aggregazione primaria che è la forma più diretta e solidale dello stare insieme: la comunità di villaggio [3]. Essa è l’unica che mette in relazione tutti i protagonisti della convivenza e dà ad essi la possibilità di partecipare direttamente alla sua gestione sia nei ruoli evolutivi del potere comunitario sia nella semplice appartenenza alla piccola comunità.
In essa tutti, purché lo vogliano, si conoscono e hanno la possibilità di scambiare punti di vista informali, nella comunicazione quotidiana, o formali e normativi se partecipano alle forme di governo della comunità locale nelle varie epoche storiche. E questo avviene già a partire dal primo stadio tribale in cui la scelta e la gestione degli interessi elementari di sopravvivenza della comunità è affidato all’esperienza degli anziani e continua poi nel corso della Storia in cui questo rapporto, nonostante il succedersi di forme di governo autocratiche nelle varie epoche, sopravvive clandestino o normato mantenendo la sua identità.


Si pensi all’antica Roma in cui il senato gioca un ruolo fondamentale di argine alla degenerazione autoritaria fino a cercare di impedirla con l’omicidio collettivo simbolico del dittatore Cesare. O all’antica Grecia, dove esistono e si scontrano due approcci diversi al ruolo degli anziani, derivanti dall’economia propria delle due città che si contendono il dominio della penisola, Atene e Sparta: la prima che è sempre più protesa a instaurare un dominio commerciale sull’Egeo e quindi ha bisogno di forze giovani che intraprendano le imprese di conquista o addirittura si delocalizzino fondando colonie legate alla madrepatria; la seconda, che basa la sua economia sul latifondo e pertanto ha bisogno della saggezza degli anziani per condurla al meglio, anziani che fanno parte della gherusìa, l’assemblea che provvede alla redazione delle leggi e all’applicazione della giustizia.
Esse rappresentano due concezioni che, con le loro evoluzioni epocali, si rincorrono e si scontrano spesso nella Storia, anche nella nostra contemporaneità. E se Atene è il modello a cui ci si rifà parlando di democrazia, Sparta è quello evocato quando ci si richiama al bisogno di autorità e di autoritarismo.
 

[1] Nietzsche, Friedrich, La gaia scienza, Feltrinelli, Milano 2022
[2] Vico, Giambattista, La scienza nuova, Rizzoli, Milano 1977
[3] Il concetto di “comunità” viene qui inteso nel senso della definizione che ne ha dato il giurista tedesco Otto von Gierke, in base alla quale ogni corpo che si basa su una libera associazione, dalla famiglia allo Stato, può definirsi tale, cioè una forma autonoma dell’organizzazione politica.
 

La communauté villageoise du Moyen-Age à la modernité

Ma torniamo alla comunità di villaggio che nel suo percorso spesso sotterraneo ha dovuto combattere con l’una e con l’altra di queste due tendenze politico-sociali, perché entrambe hanno teso a conculcarla, a deprivarla di quello spirito comunitario che ne ha consentito la sopravvivenza attraverso i secoli. Che si trattasse di un potere feudale o dell’egemonia di una città commerciale, essa ha dovuto subire sempre atteggiamenti vessatori che ne hanno messo a rischio l’esistenza, a cui si aggiungevano quelli della Chiesa, imposti anch’essi, se qualcuno li trasgrediva, con il braccio armato secolare della santa alleanza dei potenti.
Stretti in questa morsa, contadini e pastori non avevano scampo e hanno dovuto elaborare nel tempo uno spirito di sopportazione eroico, fatto di umiliazioni e di espedienti trasgressivi di sopravvivenza, che talora, quando la pressione si faceva intollerabile, è sfociato in rivolte feroci e cruente (quelle che chiamiamo jacqueries). Rivolte che duravano per lo più “lo spazio di un mattino”, presto soffocate, anch’esse nel sangue, dagli apparati repressivi degli stati.

Viste le terribili conseguenze di ogni tentativo di ribellarsi, contadini e pastori hanno cercato nei secoli forme di adattamento al potere sia collettive che individuali in modo da limitare i danni e poter garantire alle loro famiglie quel minimo necessario di sostentamento. Ed è proprio in questa azione quotidiana che è diventato determinante il ruolo informale della comunità rurale: la solidarietà all’interno del villaggio ha consentito di sopperire a quelle mancanze dovute all’assetto sociale o all’esercizio del potere creando una rete di resistenza interpersonale pronta ad agire nelle diverse situazioni.
Se di fronte alle istituzioni tutti accettavano le leggi vigenti, nella relazione quotidiana con gli altri membri della comunità paesana non si facevano scrupolo a trasgredirle per aiutare qualcun altro o ricevere aiuto; e tutto questo si spingeva al punto anche di proteggere chi, per diverse ragioni, veniva perseguito dal potere nascondendolo e mantenendolo nella clandestinità. Persone che a prima vista potevano sembrare dei pavidi succubi dell’autorità, questo era l’atteggiamento, si rivelavano invece poi tra i più solerti in quest’opera di solidarietà che coinvolgeva tutti, uomini, donne e bambini.

Ma, se questa era la risposta della maggioranza dei membri della comunità, trattandosi di uomini non potevano mancare anche coloro che facevano il doppio gioco cercando di acquisire meriti presso le istituzioni o, nel caso di coloni e mezzadri, presso i proprietari: le spie. Questa figura di traditore è sempre presente nell’immaginario del mondo rurale e, se anche oggi s’intervistano degli anziani, vengono fuori i casi di persone che, dal momento che erano riconosciute tali da tutta la comunità, venivano bollate con quel soprannome e distinte dalle altre anagraficamente omonime con quell’epiteto specifico. Se poi si risale indietro nel tempo, si scoprono storie di punizioni esemplari subite da questi personaggi, spesso costate a loro anche la vita, e comunque tali da emarginarli dal resto della comunità.

Che tende dunque a difendersi, a stringere le maglie, perché riconosce in questo comportamento collettivo l’unico modo per garantire la sua sopravvivenza. Rifugiarsi in quel “dono” comune primordiale che è la condivisione: un tempo anche delle terre, oggi, sebbene proprietari individuali, almeno di un’identità comune.
La parcellizzazione della terra non è storicamente il frutto della volontà individualistica di contadini e pastori, ma deriva dalle reiterate azioni dei vari poteri per sottrarre le terre “comuni” arcaiche alle comunità locali. Alcuni di questi poteri, ad esempio quello feudale, pur pretendendo in cambio prestazioni coatte e gratuite, hanno riconosciuto la parziale inalienabilità di queste terre consentendo alle comunità di villaggio di continuare a sfruttarle per farvi legnatico ed erbatico. Altri, successivi, legati all’idea capitalistica dell’investimento e dell’accumulazione, hanno permesso che grandi proprietari borghesi le inglobassero nelle loro aziende, “chiudendole” alla fruizione collettiva.
Di fatto, le terre comuni si sono ridotte man mano che nella Modernità si è affermata l’idea filosofica e giuridica della terra come proprietà privata ed esclusiva in netta contrapposizione alla nozione di bene comune che il Medioevo aveva ancora salvaguardato. Spesso la Magna Charta Libertatum del 1215 viene ricordata dagli storici come il primo esempio di documento costituzionale europeo, ma non viene quasi mai detto che assieme ad essa venne emanato anche un altro documento, la Charter of the forest, che garantiva la tutela delle terre “comuni” da cui dipendeva la sopravvivenza della maggior parte dei sudditi inglesi.

È, dunque, la modernità a favorire e a introdurre un rapporto individualistico con la terra basato su un principio quantitativo. Fino ad allora il contadino si era relazionato con essa in modo qualitativo, considerandola un vero e proprio organismo di cui bisognava rispettare il ciclo biologico. C’erano determinati momenti per lavorarla e per farla riposare, altri per concimarla e poi mettere la semente ;
forzare questi tempi voleva dire alterare il ciclo e creare le premesse per un suo sconvolgimento. E tutto questo era il frutto di un sapere millenario, che aveva fatto i suoi passi di progresso sempre all’insegna di un rapporto ecologico. Un sapere comune, frutto di uno scambio assiduo di informazioni all’interno di una condivisione innanzitutto esistenziale. Ecco, è questo che viene meno con la modernità nelle nostre campagne: ciò che era comune si trasforma in un mercato in cui ognuno fa prevalere il suo “avere” sull’˝essere insieme˝ comunitario.

Inizia allora un processo che vede l’idea stessa di “comune” espulsa dalla dialettica politica e giuridica, stretta nella morsa tra lo Stato Sovrano e la proprietà privata. Il primo fungerà da elemento regolatore della seconda e sarà ora più dirigista ora più liberale, ma sarà la seconda la vera interprete della modernità e, dopo, della contemporaneità.
Con essa l’˝avere˝ diventerà l’unica dimensione del vivere sociale e l’accumulazione capitalistica il fondamento stesso dello Stato sovrano. La prima e la seconda fase del colonialismo esporteranno questo modello in altri continenti dove troveranno il “carburante” necessario per un’accelerazione accumulativa in vista di altre accumulazioni; e lo faranno distruggendo l’equilibrio comunitario ed ecologico di altri milioni di persone che quell’˝essere insieme˝ continuavano a coniugarlo con convinzione. Diffonderanno come una malattia contagiosa l’individualizzazione dell’esistenza ponendo le premesse della globalizzazione consumistica in atto. Ma soprattutto cancelleranno l’idea dei “beni comuni” dal diritto costituzionale contemporaneo privando i popoli di quel “dono” condiviso che è il fondamento di ogni libera aggregazione sociale.

La communauté villageoise dans le monde contemporain

Ma cosa è rimasto oggi di quella comunità di villaggio che è sopravissuta in qualche modo clandestinamente alle vicissitudini della Storia? Nella contemporaneità del mondo occidentale non esiste più la comunità di villaggio agricolo-pastorale, in quanto a partire dalla prima rivoluzione industriale, e ancor più nella seconda e nella terza, essa ha perso la peculiarità economica e sociale che l’aveva contraddistinta nei secoli.
I contadini e i pastori sono oggi al suo interno un’assoluta minoranza, la stragrande maggioranza delle popolazione autoctona è emigrata nelle città e quella che è rimasta “pendola” quotidianamente verso di esse o verso le cosiddette “aree industriali” per andare a fare lavori da operaio di fabbrica o, soprattutto, da operaio e tecnico del terziario. Ma d’altro canto, in seguito all’esplosione ecologica di molte città, diventate pressoché invivibili, molti cittadini hanno iniziato un controesodo verso i paesi e ci si sono stabiliti trasformandosi in neo pendolari del lavoro oppure risiedendovi permanentemente in quanto fruitori di rendite varie, pensionistiche o di investimento.

L’aggregato sociale delle comunità di villaggio è dunque molto cambiato e in esso, in molte situazioni, prevale il numero di coloro che vi sono immigrati recentemente e non quello di chi vanta un’antica residenza familiare. E questo, se magari ha determinato inizialmente alcuni attriti – gli antichi residenti che rivendicavano una sorta di pedigree, gli altri che ragionavano come se fossero ancora in città – si sta risolvendo nella nascita di una nuova comunità di villaggio, spesso anche multietnica, che se non vuole essere periferia della città deve trovare un nuovo ruolo originale nel contesto delle relazioni politico-sociali all’interno dello Stato.
Ma qual è il modo per rendere veramente centrale nella vita politica democratica di uno Stato la comunità di villaggio? Vivere al suo interno l’avventura democratica nella pienezza dei suoi principi e dei suoi diritti-doveri. Perché, se è pur vero che la pratica democratica nelle piccole comunità è comunque già normata dalla legislazione dei vari paesi, occorre però, per la sua sopravvivenza, reinterpretarla nel senso di una democrazia il più possibile diretta che ne coinvolga costantemente i membri.

La democrazia rappresentativa, infatti, si risolve spesso nella delega  dell’attività amministrativa della comunità ai sindaci e a qualche assessore solerte, nel disimpegno della maggior parte dei consiglieri comunali che talora neppure partecipano ai Consigli, ma soprattutto nella totale e giustificata assenza dei cittadini elettori. In tal modo si assicura lo scheletro della democrazia, ma la si svuota della sua essenza democratica che dovrebbe essere la partecipazione attiva e costante dei cittadini alla vita della comunità.

Eppure spesso gli eletti alle cariche comunali si trincerano dietro il mandato degli elettori, come se questo avesse loro conferito il potere assoluto di decidere sulle varie questioni, anche quando nello specifico gli elettori, che magari hanno anche votato per loro, non sono d’accordo. Ma appellandosi a questo assunto essi contraddicono il diritto del cittadino di partecipare al governo del proprio comune direttamente, come sancisce a livello planetario, riguardo alla complementarità degli istituti della democrazia diretta moderna e della democrazia  rappresentativa, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 che all’articolo 21 recita: “Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti”.
In esso venne addirittura messa prima la partecipazione diretta del cittadino, come se la si ritenesse il cuore pulsante della democrazia. E allora il problema che si pone è come sia possibile attivare dei percorsi di democrazia partecipata, all’interno dei quali il cittadino elettore possa avere voce in capitolo per tutta la durata di una legislatura e non soltanto al momento della scelta elettorale. Le legislazioni dei paesi più democraticamente avanzati prevedono alcuni strumenti di partecipazione popolare come i vari tipi di referendum che sono l’unica possibilità di democrazia diretta delle grandi comunità, siano esse stati, regioni o città.
Le piccole comunità di villaggio, invece, oltre che di quegli strumenti, possono avvalersi delle stesse prerogative che nell’antica Grecia consentivano all’ecclesia (κκλησία), l’assemblea di tutti gli Ateniesi aventi diritto di voto, di decidere seduta stante sulle scelte da fare per il bene della collettività. Essa si radunava sulla collina di Pnice (si trattava di migliaia persone) e le varie proposte relative al governo della città, presentate dalla Boulé, l’organo legislativo ateniese, venivano approvate o disapprovate e diventavano legge.

Ma del resto è ciò che avviene ancora oggi nelle piccole comunità di villaggio svizzere o della Nuova Inghilterra negli U.S.A. in cui le decisioni fondamentali per la vita della comunità vengono decise dall’assemblea di tutti i cittadini. Cittadini che si conoscono, che si parlano, non soltanto numeri che partecipano alle elezioni su sollecitazioni esterne alla comunità stessa.
Questa pratica democratica diretta sarebbe possibile adottarla in tutte le piccole comunità di villaggio. Anzi, si potrebbe fare anche di più e far lavorare insieme la rappresentanza popolare eletta e il resto della cittadinanza nella stesura dei programmi e dei progetti per la comunità con una procedura partecipata che consenta loro di decidere possibilmente all’unanimità o almeno a stragrande maggioranza sulle azioni da intraprendere. Del resto, quando si parla di disaffezione dalla politica, non bisogna dimenticare che la prima ragione del fenomeno è proprio la frustrazione del cittadino che vede passare sopra la sua testa scelte che non ha condiviso.
Ma se egli viene chiamato direttamente in causa e può esprimere la sua opinione, allora si sente gratificato e motivato a partecipare e la partecipazione ridiventa non solo un diritto, ma anche un dovere, proprio com’era considerata nell’antica Grecia. Perché solo partecipando si può percepire il valore della democrazia, constatare la bellezza e l’importanza umanistica del confronto, senza il quale è impossibile avere una visione obiettiva della realtà. E di conseguenza sentire la responsabilità di questa partecipazione affinché la comunità possa continuare ad esistere e a soddisfare tutti i suoi componenti.

Oggi, le piccole comunità di villaggio, oltre ad essere spesso una realtà felice di convivenza, sono rimaste l’ultimo baluardo della democrazia, dove sarebbe ancora possibile esercitare proficuamente forme di democrazia diretta immediate e responsabili, un vera e propria palestra di cittadinanza attiva in controtendenza alla crisi della politica. Occorre dunque sfruttare questa possibilità che esse ci offrono, difenderne l’autonomia dai tentativi di inglobarle in entità amministrative più grandi ed impedire che la degenerazione della democrazia politica contemporanea ne affidi la gestione ad organismi burocratici espressione di un centro sempre più autoritario e illiberale.
Occorre, come dicevano gli umanisti, prendere in mano il proprio destino individuale e coniugarlo con quello della comunità, secondo quello slogan marxiano, ma che potremmo definire anche cristiano o  semplicemente umanistico, “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni” [1], che contiene in sé quell’idea del bene comune che Platone mette in bocca a Socrate ne La Repubblica [2] (“Chi ignora in che modo le cose giuste e belle sono buone, è un custode ben scarso. E nessuno può conoscere adeguatamente il giusto e il bello prima di sapere in che modo è buono”) e quella che fa dire a San Tommaso nella Summa Theologiae  che “costituendosi la legge innanzitutto per riferimento al bene comune, qualsiasi altro precetto sopra un oggetto particolare non ha ragione di legge sino a quando non si riferisce al bene comune”.
È solo agendo con questo spirito e con queste inferenze che sarà possibile tentare di salvare la democrazia. È la comunità di villaggio, da ultimo baluardo della democrazia, potrebbe diventare davvero il primo baluardo della sua riscossa.
 
[1] Marx, Karl, Critica al programma di Gotha, Massari Editore, Bolsena 2008.
[2] Platone, La Repubblica, Rizzoli, Milano 2007.
[3] Tommaso d’Aquino (san.), La somma teologica, ESD – Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1985.

 

Dimanche 2 Mars 2025
Gianni Repetto


Dans la même rubrique :
< >

Dimanche 1 Décembre 2024 - 15:35 Littérature de la châtaigneraie