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Perte d’urbanité et déconstruction du rural



Gianni Repetto est un militant de la ruralité. Originaire de Lerma un village du Piémont aux confins de la Ligurie, il ne cesse de renouveler son engagement en faveur des campagnes à faveur de mandats associatifs et politiques mais aussi de publications d’essais et de romans qui auscultent la civilisation paysanne et sa fragilisation. Grand ami et connaisseur de la Corse, il a souhaité partager avec nous son regard sur les phénomènes d’exode rural et d’exode urbain et sur les bouleversements culturels qui se jouent dans ces déplacements de population et dans ces zones devenues “péri-urbaines”. Dans l’idée nous dit-il que nous puissions éviter ici cette conjonction de “disurbamento” et de “deruralizzazione” qui a déjà déconstruit la ruralité dans sa région. Ma forse ci simu digià no ?



Lea Eouzan, Lacrime, 2015
Lea Eouzan, Lacrime, 2015

Nel secondo dopoguerra i nostri paesi subirono un esodo massiccio di popolazione verso i centri urbani alla ricerca di un lavoro garantito che qui era difficile trovare. Allora, oltre a quel bisogno contingente, sul fenomeno influì anche il fascino della città come luogo dove vivere, con tutte le sue comodità e opportunità: andare a vivere in città voleva dire emanciparsi, uscire da una sorta di condizione servile, come se fosse sempre valido il detto medioevale “L’aria della città rende liberi”. Del resto la maggior parte dei paesani che emigravano veniva da storie di mezzadria che era un istituto giuridico-economico ai limiti della condizione servile.

Soltanto chi l’ha provata sa cosa vuol dire: dividere a metà il raccolto con il padrone del fondo, con il rischio di esseri buttati fuori dal podere in modo arbitrario (successe a mio nonno che, come ne L’albero degli zoccoli  di Olmi, tagliò una pianta per fare appunto gli zoccoli a uno dei tanti figli; un vicino, anche lui mezzadro dello stesso proprietario, fece la spia, viva la solidarietà tra poveri!, e il padrone lo cacciò), è la condizione più umiliante che un uomo possa vivere. Non che i piccoli proprietari se la passassero meglio: avevano così poco terreno che difficilmente ci riuscivano a sfamare la famiglia e allora dovevano prendere altri terreni a mezzadria o andare a lavorare a giornata se volevano sbarcare il lunario.
 


Choisir la ville

Pertanto, piuttosto che fare quelle vite grame, molti decisero di emigrare a Genova a fare l’operaio dell’industria o il muratore e qualcuno andò anche a gestire delle portinerie, assicurandosi almeno l’abitazione. La maggior parte di loro non andò a vivere nelle zone più prestigiose della città, ma nel centro storico fatiscente o nei quartieri operai della periferia; era però a Genova, in città, e aveva tutto a portata di mano, da cogliere in qualsiasi momento.
Questo emergeva dai loro racconti quando raramente tornavano in visita al paese. Racconti che sconfinavano spesso nella bugia, mussa, come se si vergognassero della loro effettiva condizione. E allora i ragazzi giocavano tutti nel Genoa o nella Sampdoria e gli uomini avevano posti di lavoro ben retribuiti, magari con mansioni di comando. Le donne in genere tacevano, custodi di ben altri segreti.

Man mano poi che i paesi si spopolavano, cambiava anche il paesaggio della campagna: si cominciava a vedere qualche vigna persa, qualche cascina disabitata, mutavano anche le abitudini degli abitanti. Ancora nei primi anni 1960 era possibile vedere crocchi di persone affollare nei giorni di pioggia il negozio del parrucchiere o del calzolaio, con tutto quello che ne conseguiva: discussioni accese, motteggi, sceneggiate degne del miglior teatro di avanspettacolo.
Personaggi mitici tenevano banco con la loro parlantina e le loro stranezze e rappresentavano un fattore forte di aggregazione sociale così come lo sono oggi certe trasmissioni televisive. La sera, poi, i bar si riempivano, ognuno con la sua storica clientela. C’era l’osteria più tradizionale (a Lerma era quella di Menucciu, una signorina dal sarcasmo sferzante), dove andavano quelli più vecchi di età, ma anche di costume, formidabili ciccatori di tabacco e fumatori di Alfa (bastava starci cinque minuti per uscire con i vestiti impregnati di cattivo odore), che giocavano a carte in un silenzio irreale.

Oppure il bar d’avanguardia (si fa per dire, magari c’aveva soltanto in più il biliardo) in cui si ritrovavano quelli un po’ più giovani e anche i giovanissimi. Anche lì si giocava a carte, ma in modo un po’ più spinto, sia nella tipologia dei giochi che nelle giocate in denaro, e giocando si urlava e scoppiavano vere e proprie liti. I giovanissimi, intanto, cominciavano a provare insofferenza per quelle abitudini e nella seconda metà degli anni 1960 la manifestarono anche da noi con i capelli lunghi. Allora faceva effetto entrare in un bar di paese con i capelli lunghi: la gente ti guardava di traverso e come minimo sogghignava.
E poi c’era la sala della televisione (non come ora, che te la schioccano ovunque, anche dove mangi), la vecchia televisione in bianco e nero con un solo canale. A Lerma ce l’avevano il prete nel circolo ricreativo, l’osteria da Menucciu e il bar ristorante da Gepin. Ricordo ancora certe sere dal prete la sala zeppa per vedere uno dei tanti sceneggiati d’autore che allora la RAI mandava in onda: La Cittadella, tratto dal libro omonimo di Cronin. Questa era la politica culturale che faceva allora la RAI!

Ma fu proprio la televisione a cambiare le forme della socialità dei nostri paesi: nel decennio successivo cominciò a diffondersi capillarmente nelle case e a mutare drasticamente le nostre abitudini. Non c’era più bisogno di andare dal ciabattino e dal barbiere, che nel frattempo magari avevano chiuso, perché lo spettacolo era lì, in quella “cascétta da avie”, come la definì Tognu Balestrasse e bastava premere un pulsante perché si materializzasse.
Magari più scadente, ma si fa presto ad assuefarsi quando si cede alla comodità. Se poi a tutto questo si aggiunge anche il telefono, si comprende come si sia completato il processo di alienazione dei nostri rapporti che da diretti hanno teso a diventare sempre più indiretti.
 


Développement de logement, emballement de la construction, nouvelle population

Negli anni 1970 inizia anche un fenomeno nuovo, legato in parte alle rimesse degli emigranti del secondo dopoguerra: il boom edilizio dei nostri paesi. Nasce da un’esigenza di abitazioni più confortevoli (le immagini che la TV diffonde fanno vedere case da sogno) oppure come investimento in seconde case (soprattutto da parte degli emigranti). Il fenomeno testimonia un miglioramento della condizione economica generale italiana e anche di quella locale. Sono cresciuti i salari e gli stipendi, le attività imprenditoriali anche di più piccole dimensioni (idraulici, elettricisti) diventano fortemente redditizie.
A Lerma il boom edilizio vuol dire soprattutto palazzi. Palazzi veri, di tipo cittadino. Prima di allora le vigne arrivavano a lambire il paese, uno usciva dalla Lea verso Casaleggio o verso la Valle Scura in mezzo a una distesa di viti. Si comincia a sbancare, a infliggere profonde ferite alle nostre colline, e le case, i palazzi, crescono come funghi, tra le maglie incerte di una regolamentazione edilizia approssimativa.

Di contro il centro storico si spopola, gli esercizi commerciali chiudono. Questi nuovi quartieri sono in parte fantasmi, popolati per un breve periodo soltanto in estate, e quindi contribuiscono solo minimamente allo sviluppo economico del paese. Inoltre, nel giro di poco tempo, in seguito alla congiuntura economica dei primi anni 1980 (soprattutto la crisi petrolifera), l’operazione edilizia si rivela completamente sbagliata: i costi di mantenimento delle seconde case (condominio, riscaldamento) lievitano a tal punto da costringere i proprietari o ad abitarvi o a metterle in vendita.

Nel frattempo è stata ultimata l’autostrada A 26 e le comunicazioni tra Genova e l’Ovadese diventano più celeri. Ciò favorisce un fenomeno di controtendenza rispetto alle dinamiche migratorie postbelliche: Genova comincia a perdere abitanti. Secondo le statistiche, dal 1971, quando aveva 816.872 abitanti, al 2010 ha perso la bellezza di 216.000 abitanti, l’equivalente di una città grande come Parma. Molti, per ragioni ambientali, ma soprattutto perché costretti dal rincaro degli affitti e del costo delle abitazioni (incomprensibile in una città che perde domanda), decidono di trasferirsi nei paesi della cintura urbana.
E per Genova, vista la saturazione e i costi dei paesi della Riviera, cintura urbana vuol dire Oltregiogo e, in particolare, Valli Stura e Orba e Valle Scrivia. Treni regolari da Ovada e da Novi o da Arquata oppure le autostrade A7 e A26 assicurano le comunicazioni con la grande città in tempi relativamente brevi. Di conseguenza i paesi delle nostre valli, depauperati dall’esodo, registrano una crescita demografica costante nonostante il saldo sempre negativo della popolazione originaria residente. A Lerma i palazzi si ripopolano, le cascine vengono recuperate come edifici residenziali, qualche coraggioso investe anche nel centro storico.

Tutto ciò fa pensare a una sorta di rinascita dei nostri paesi e a un possibile recupero dei livelli di socializzazione dell’immediato dopoguerra. I numeri cominciano a esserci e se ci sono i numeri sono inevitabili anche gli scambi. E invece non succede niente di tutto questo. Il disurbamento in atto determina un trasferimento fisico di persone che, per la maggior parte, tendono a mantenere le loro abitudini cittadine anche nelle nuove residenze. In pratica esse si trasferiscono nei paesi trasformandoli in quartieri dormitorio della città: durante il giorno si riversano per lavoro nei centri urbani, la sera rientrano nei paesi e si rintanano nelle loro abitazioni.
Vivono dunque nei nostri paesi, ma non partecipano assolutamente alla vita paesana. E, se lo fanno, pretendono dall’ente locale in servizi tutto quello di cui godevano nella città. Nessun approccio, invece, alla cultura locale, considerata una sopravvivenza barbara, “grebana”, come se il luogo in cui si sono stabiliti non avesse una sua identità e storia precisa, ma fosse soltanto un appartamento da acquistare o un lotto di terreno fabbricabile qualsiasi su cui costruire la propria casa.
 


Mais disparition des cultures locales

Tutto ciò ha avuto un impatto devastante sui nostri paesi, accelerando in modo vertiginoso la scomparsa della cultura locale e la deruralizzazione del territorio. Se quelle che furono delle buone cascine in cui vivevano famiglie numerose vengono trasformate in edifici residenziali (il fatidico “cambio di destinazione d’uso”), è chiaro che la vocazione del nostro territorio muta in modo irreversibile. Così si passa da un paesaggio rurale, modellato e funzionale nei secoli, a una sorta di urbanesimo allargato, con delle ristrutturazioni di alta qualità residenziale sparse come isole su un territorio sempre più degradato.
È la fine di una storia millenaria, e quindi anche di un’identità storico-sociale ben definita e testimoniata da edifici, strutture e terreni di impronta esclusivamente rurale. Ed ecco allora che, quasi con una sorta di dileggio, per lo più inconsapevole perché frutto di un’abissale ignoranza, si preservano e si espongono, come elementi originali di arredo, simulacri di quella cultura contadina, torchi, carri, bigonce, su cui hanno faticato intere generazioni per rendere questi territori abitabili e produttivi e che dunque dovrebbero godere di un rispetto sacrale, quello che si deve a tutti gli antenati.

Vengono chiuse arbitrariamente delle strade, magari ancora di diritto comunale, per interesse privato, strade un tempo nemmeno troppo lontano percorse giornalmente dai nostri carrettieri, senza che i comuni reagiscano agli abusi in quanto le ritengono soltanto un peso per la pubblica amministrazione e non un tassello indispensabile per la conservazione e la riproposta attiva della memoria.
Nascono recinzioni ovunque, spesso anche queste abusive, in aperta contraddizione con la storia dei fondi rurali sulle nostre colline. Se per caso, poi, nasce un contenzioso tra un vecchio residente legato a pratiche di vita tradizionale, tenere qualche bestia nella stalla, bovina, suina o pollame, e un nuovo insediato, alla luce dei piani regolatori vigenti nei nostri paesi il vecchio residente deve rassegnarsi ad avere torto perché quegli strumenti urbanistici non sono fatti per tutelare lui e la sua storia, ma una residenzialità di stampo urbano trasferita tout court nelle nostre campagne.
 


Les trois facteurs qui ont conduit à la fin des paysans

Ma come si è potuto arrivare a tutto questo? È sufficiente evocare il furore iconoclasta dell’abbandono delle campagne nel secondo dopoguerra per spiegare una catastrofe sociale e ambientale di queste proporzioni? Credo che per cogliere la dinamica di questo fenomeno epocale occorra riflettere fondamentalmente su tre fattori che ne hanno accelerato lo sviluppo: la marginalizzazione dell’agricoltura nella vita nazionale; la legislazione sanitaria relativa all’esercizio delle attività agricole e di trasformazione dei prodotti; l’assenza di una cultura dell’identità locale nelle amministrazioni pubbliche e nei cittadini storici. Esaminiamole in successione.
Le politiche agricole italiane degli ultimi cinquant’anni hanno mirato essenzialmente a favorire le aziende agricole industriali e la specializzazione colturale. La razionalizzazione del lavoro agricolo richiede grandi estensioni affinché gli investimenti in strutture e in tecnologia possano ripagarsi e produrre profitti. Sono queste aziende che contribuiscono a determinare la produzione agricola nazionale, quelle di piccole dimensioni sono irrilevanti sul piano economico generale e spesso addirittura di intralcio per la pianificazione agricola.

C’è poi il problema della specializzazione colturale. Le aziende agricole industriali la praticano sistematicamente, adattandosi alle esigenze del mercato. Per loro non esiste l’idea della tradizione produttiva, ma soltanto quella della produzione redditizia. Minor lavoro possibile, prodotto più richiesto nelle proiezioni di mercato, maggiore profitto. Sono a tutti gli effetti delle aziende industriali, spesso i lavoratori, braccianti fissi o a giornata, non risiedono neppure sul territorio. Le piccole aziende, invece, per tradizione hanno sempre praticato la produzione integrata, basata innanzitutto su un principio di sussistenza e poi sulla commercializzazione delle eccedenze.
Ma, a partire dagli anni 1970-80, hanno teso anch’esse a specializzarsi e hanno finito per cacciarsi in una trappola mortale. La coltura della vite sulle nostre colline ne è un esempio. Oggi resistono soltanto le aziende legate a forme imprenditoriali di investimento, quelle condotte dalla famiglia agricola tradizionale reggono soltanto se in casa ci sono dei redditi provenienti da altre attività. Oggi, infatti, si produce sottocosto visto che i prezzi delle uve e del vino sono inferiori a quelli di vent’anni fa.

Come se non bastasse, i piccoli agricoltori si trovano ad affrontare una serie di complicazioni burocratiche sempre più complesse per esercitare il loro mestiere. La norma igienica negli ultimi trent’anni è diventata un’ossessione, un Moloch che si mangia tutto il reddito dell’azienda. Un viticoltore, per poter commercializzare in proprio il suo vino, deve investire una cifra spropositata in una cantina a norma che difficilmente riuscirà a recuperare.
Un piccolo allevatore deve dotarsi di una stalla meccanizzata che salvaguardi il benessere animale e attui lo stoccaggio dei liquami e del letame con metodologie di smaltimento pari a quelle di un’industria chimica. Se poi per caso vuole macellare un maiale per uso domestico, deve portarlo al macello autorizzato con i relativi costi di macellazione, pezzatura e insaccatura. Persino vendere una gallina e tirarle il collo come si è sempre fatto in campagna non è consentito dalla norma: bisogna portare anch’essa al macello.
Tutto questo ha contribuito a scoraggiare anche i più volonterosi a fare azienda agricola. La montagna ipertrofica di norme, dettate essenzialmente da un atteggiamento di deresponsabilizzazione degli uffici preposti (ovvero nessuno vuole assumersi responsabilità e perciò rincara la dose per la sua sicurezza, in pratica per pararsi il di dietro, non per quella dei consumatori), ha stretto l’azienda agricola in una morsa letale e le poche che sopravvivono hanno dovuto trovare un necessario compromesso tra passato e presente: ritmi di lavoro secondo tradizione, sette giorni su sette, rispetto della norma nei termini minimi indispensabili, produzione integrata secondo metodologie tradizionali, dotazione essenziale di tecnologia. 

Ma perché le comunità locali hanno accettato tutto questo? Perché non c’è stata una reazione decisa nei confronti sia della normativa vessatoria sia del cambio di destinazione d’uso di terreni agricoli fertili in zone di sviluppo residenziale?
Innanzitutto c’è una forte responsabilità da parte degli amministratori pubblici che si sono succeduti in questi ultimi 30-40 anni nei nostri territori. La maggior parte di loro, infatti, non aveva e non ha rapporti diretti con le attività rurali e molti di loro, visti i recenti insediamenti, non ce l’ha nemmeno indiretti come tradizione familiare.
Ne consegue che la loro comprensione del problema è assolutamente parziale, spesso addirittura soltanto nominale. Non sono quindi in grado di difendere un assetto urbanistico del territorio che tenga conto della peculiarità dei terreni agricoli né di assumere iniziative concrete a favore di forme di agricoltura marginale che, in quanto tali, potrebbero conquistarsi quegli spazi di nicchia che oggi sono l’unica prospettiva concreta per una piccola azienda. Lo dimostra il fatto che, laddove c’è un sostegno competente da parte delle istituzioni, difesa e valorizzazione geografico-ambientale delle terre di produzione e promozione guidata dei prodotti, le aziende riescono a sopravvivere se non addirittura a prosperare.

Ci sono poi le responsabilità degli operatori agricoli che spesso si sono arresi alle prime difficoltà. Piuttosto che mettere in discussione modelli consolidati di conduzione delle aziende hanno preferito trovare forme di compromesso a metà strada tra la conduzione parziale dell’azienda e la loro trasformazione in operai agricoli o anche di altro genere. Ne è conseguito uno scadimento della qualità produttiva dell’azienda, intesa sempre più come un secondo lavoro, e una deriva psicologica ed emotiva che rende difficile trovare soluzioni redditizie compatibili con il territorio.
Il resto della comunità locale vive in genere la desertificazione agricola come un portato ineluttabile dei tempi e non si preoccupa minimamente delle mutazioni anche di identità che ciò comporta. Lo stile di vita cittadino viene accettato come una forma di progresso e il territorio visto come un ambito generico il cui processo di rinselvatichimento, seppure astrattamente deprecabile, è tuttavia naturale e conseguente. Quasi nessuno coglie il senso profondo di ciò che sta avvenendo, la ferita insanabile che lacera il nostro immaginario collettivo.
Anzi, per la maggior parte di loro la localizzazione toponomastica, le peculiarità ambientali, la storia sociale ed economica sono elementi nostalgicamente infantili che tutt’al più possono interessare qualche libro fotografico o qualche rievocazione folkloristica. L’identità, intesa come memoria vivente e attiva, non viene neppure presa in considerazione, e qualora qualcuno si incaponisca a riproporla viene guardato con sufficienza, come una sorta di don Chisciotte. A meno che non faccia lo sciocco sguazzandoci dentro in modo becero e macchiettistico.
 


Une fin inéluctable ?

Siamo dunque destinati a perdere le nostre radici rurali? Assolutamente sì. È inutile che si continui a ripetere che prima o poi la terra verrà bene: l’uomo della società virtuale e tecnologizzata, nonostante gli spasmi che la caratterizzeranno, sarà sempre più lontano dalla terra, perché reciderà del tutto sia materialmente che psicologicamente il cordone ombelicale che lo legava a essa. E senza una memoria viva e condivisa, nessuno sarà più in grado di ripartire, perché non è possibile recuperare una storia di millenni nel giro di una stagione.
La cultura rurale, una volta demolita, sparirà per sempre, come se non fosse mai esistita. Si estinguerà, come si sono estinte nel tempo molte specie animali e vegetali, antiche civiltà e le loro lingue. Tutto normale, dunque, perfettamente all’interno del processo evolutivo che accompagna la storia del pianeta. Ovvero, alla luce della situazione attuale, del processo di involuzione che si sta mangiando la biodiversità della Terra a ritmi ormai prossimi alla catastrofe.


Per quel che ci riguarda, nel nostro microcosmo paesano, avremo un territorio sempre più semplificato, polarmente differenziato, con aree residenziali ordinate secondo piani regolatori omologati, dotate di tutti i servizi di urbanizzazione e gravate dai loro crescenti oneri, e aree inselvatichite o coltivate industrialmente, a seconda della vocazione e intraprendenza locale, comunque deserte, prive di un tessuto sociale che le vivifichi con la sua presenza costante fatta di lavoro quotidiano, rapporti interpersonali, condivisione di problemi e salvaguardia della terra.
Un territorio assolutamente dimentico dei nomi che ne avevano contrassegnato ogni anfratto, frutto di una conoscenza fisica capillare, animale direi, e di una lettura quotidiana dei luoghi in base alle loro caratteristiche ambientali. Una memoria di saperi e di azioni che si dissolverà nel nulla una volta caduti gli ultimi testimoni. E allora sarà davvero triste, in un paese che non sarà più tale, in cui non si parlerà con il vicino come in certi condomini cittadini, ridursi a chattare sul nostro PC con qualcuno altrettanto solo dall’altra parte del mondo.


 
Mardi 26 Septembre 2023
Gianni Repetto


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